Giornale di Sicilia4 

Se dovesse scegliere tra giocare una partita di calcetto o preparare un buon risotto, lui non avrebbe dubbi: vincerebbe il risotto. Perché la passione per il cibo è una cosa seria, da affrontare con ironia critica. Gianfranco Marrone in Gastromania mette in gioco innanzitutto se stesso e la sua passione per il cibo e ciò che rappresenta “anche se – precisa – io non sono soltanto un gastromane ma cerco anche di rifletterci su”. Il semiologo palermitano, nel suo ultimo libro edito da Bompiani, che sarà presentato oggi alle 10 a Villa Niscemi, analizza quella che lui sintetizza in tre parole come la “mania della gastronomia”. Oggi l’alimentazione ha invaso ogni dimensione della nostra esistenza. Mangiamo, beviamo, gustiamo, degustiamo e, soprattutto, ne parliamo in un vortice in cui l’esperienza del cibo e il discorso su di essa si fanno un’unica cosa, la gastromania, appunto. “La smania è collettiva”, dice Marrone ed è per fermarsi a riflettere e suggerire possibili spiegazioni che nasce questo libro.

L’ipotesi è che la gastromania non sia soltanto una moda…

“No, come spiego nel libro, si tratta di un fenomeno sociale più ampio e complesso. La gastromania è una esagerazione sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista dell’investimento personale e sociale. La gastronomia esiste quanto meno dal 700 in poi, attestandosi come ricerca di cibo e vino per pochi, come alta ristorazione contrapposta a quella casalinga. La gastromania ha rotto questa opposizione a due e sdoganato la gastronomia per tutti. Naturalmente ha i suoi lati positivi e quelli negativi ed il mio non vuol essere né un attacco né una difesa, ma solo un modo per considerare, caso per caso, vari momenti per vedere cosa c’è di buono e cosa c’è di cattivo in essa.

Oggi si fa un gran parlare di cibo, soprattutto in rete. Molti, ad esempio, criticano la figura del foodblogger, lei invece sostiene la sua importanza.

Chi si occupa di blog ha avuto un ruolo fondamentale nello sdoganamento della gastronomia perché il blogger è colui che svincola e articola questa alternativa tra l’alta cucina professionale e la cucina casalinga locale. Un soggetto terzo che non ha professionalità pregresse ma può serenamente dire la sua.

Anche la figura dello chef è molto cambiata negli anni. Dal cuoco chiuso nella sua cucina allo chef giramondo pronto a intervenire su molte cose. Lei lo definisce chef star.

Alla creazione di questa nuova figura hanno senz’altro contribuito trasmissioni televisive come Masterchef che a me interessano non tanto per l’aspetto della spettacolarizzazione della cucina, ma in quanto creatrici di modelli sociali. Il risultato, in sintesi, è che è tornato ad essere figo essere uno chef e la scuola alberghiera non è più un posto per sfigati ma per persone chic. Il cuoco è diventato una figura sociale verso la quale tendere ed è l’equivalente del calciatore di qualche anno fa. Ma la vera svolta epocale della cucina è che è diventata roba per dilettanti. Come afferma Michael Pollan, la cucina ormai è un’attività sganciata dalla necessità quotidiana. Chi detesta cucinare non ha più questo obbligo perché può trovare tutto pronto, nel negozio sotto casa come on line. Anche la cucina come stanza potrebbe non esistere più. Ci siamo liberati della cucina come schiavitù e dunque, essendo diventata superflua, è diventata bellissima. La cucina è oggi, per definizione, roba da dilettanti nel senso di coloro che ne traggono diletto e, anche, danno diletto agli altri.

Cibo, memoria e tradizione in che rapporto stanno?

Il rapporto è negativo se, come accade spesso anche per la cucina a chilometro zero, si arriva all’estremizzazione. L’attenzione esasperata a localismo e tradizione diventano etnocentrismo. Vanno benissimo la memoria e la rivendicazione della memoria, a patto di sapere che la tradizione è sempre frutto di una contaminazione che si è dimenticata di essere tale. Il testo che è più interessante da questo punto di vista è il celebre “Ratatouille” che sul rapporto tra gusto e infanzia dice forse le cose più innovative. In questo film il critico gastronomico Ego non recupera il passato ma attraverso la sua memoria cambia, diventa migliore.

Cos’è la cultura dell’assaggino?

C’è una ipertrofia dei programmi televisivi che sono cucina-dipendenti ma in cui le attività sono legate solo al momento della preparazione del cibo. In sintesi non si mangia mai. Al massimo si spilucca, si fanno, appunto, degli assaggini e in questo modo si dimentica il fatto che il cibo è sempre stato convivialità durante la preparazione e durante il consumo.

E poi c’è quello che lei definisce il fronte dell’orto. Come si spiega questa ricerca di terreni da coltivare?

L’orto è amore per le materie prime e per se stessi perché se curi il cibo curi te stesso. C’è chi, come me, lo fa in modo dilettantesco o chi, come ricorda spesso Petrini, lo fa per tornare alla terra: in ogni caso è una bellissima cosa dedicare il proprio tempo libero all’orto. Attività come queste sono importanti perché sono sganciate dall’economia. Si tratta di pratiche che bypassano il funzionalismo sociale, che ci consentono di ritrovare noi stessi e il nostro tempo, di godere delle cose.