La Gazzetta del Mezzogiorno

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Domenica 13 Gennaio 2008

Immagini, icone, personaggi leggendari vengono oramai assunti come simboli di un territorio. Sono effettivamente «moderni ambasciatori» per pubblicizzare luoghi e raccontare storie La funzione di Santa Claus per la Finlandia. Con il solo intento di denominare non un prodotto ma incarnare un valore di quel paese e dei suoi abitanti. Con quali vantaggi e con quali rischi?  

Brand, un segno di fuoco per le comunità umane 

di PATRIZIA CALEFATO 

Strana sensazione, quella che ho provato salendo su un aereo della compagnia di bandiera finlandese poco prima di Natale e leggendo sugli schienali dei sedili un annuncio che informava noi passeggeri che quella su cui stavamo per viaggiare era «la linea aerea ufficiale di Santa Claus». L’idea di volare insieme a Babbo Natale mi ha strappato un sorriso e infuso un senso infantile di sicurezza, richiamando in me l’implicito «racconto» cui fa riferimento il nome evocato. Mi è sembrato però che in quel messaggio ci fosse qualcosa di più dell’ammiccamento al bambino che è in noi: nella sua semplicità, infatti, esso ribadiva e amplificava un aspetto per il quale la Finlandia è famoso nel mondo, un aspetto certamente leggendario e pieno di stereotipi per turisti, pur tuttavia carico di forza comunicativa. Come spesso si fa durante i viaggi aerei, mi sono messa a sfogliare la rivista di bordo nella quale un interessante articolo di un parlamentare europeo finlandese, Alexander Stubb, dimostrava come Santa Claus sia in realtà un marchio, o – come si dice in lingua globalizzata – un brand. «I brand sono i moderni ambasciatori – dice il deputato Stubb – e raccontano molte cose del posto da cui vengono». La Finlandia ha da tempo «brandizzato» se stessa come la terra di Babbo Natale e forse per questo, secondo Stubb, nel suo paese si punta molto su pochi ma buoni brand in grado di corrispondere a idee forti che il paese esporta nel mondo: dai nomi ben noti della tecnologia comunicativa e del design per arrivare fino a quello di un campione automobilistico come Kimi Räikkönen. In effetti il marchio, il brand, la marca sono segni che hanno assunto un ruolo sempre più fondamentale nel modo di produzione della nostra epoca. L’idea di «brand» si collega a una sorta di transvalutazione che marchi e marche hanno realizzato nel momento in cui ad essi è stata attribuita non più semplicemente la funzione di denominare un prodotto per distinguerlo da altri, ma quella di incarnare un concetto, un valore, un’emozione, una narrazione. Diviene così possibile «brandizzare » non solamente le merci, ma anche le comunità umane, come le nazioni o le città. In modo molto simile ai nomi propri di persona, i brand sono allora divenuti elementi e principi socialmente attivi del linguaggio. Tanto che è possibile parlare di un «discorso di marca» essenziale per il nostro tempo, come accade nel recente libro di Gianfranco Marrone intitolato proprio Il discorso di marca. Modelli semiotici per il branding (Laterza 2007). L’autore è studioso e docente di quella disciplina di crescente rilevanza non solo accademica che si chiama Sociosemiotica e che si occupa dei modi in cui i segni, mettendo in relazione cose e idee,materie e pensieri, divengono elementi intessuti nella realtà sociale di cui costruiscono interi «pezzi». La sociosemiotica si pone oggi, secondo Marrone, come un modo di ragionare basato sulla intelligenza strategica, cioè sulla capacità di costruire, sia in prospettiva che retrospettivamente, le reti di relazioni in cui si generano i significati e i valori in diversi ambiti. E alla marca spetta un ruolo strategico essenziale in quanto essa è oggi qualcosa che, scrive Marrone, tende a occupare il posto di Dio. Per spiegare questa affermazione pesante e apparentemente blasfema, viene in soccorso l’etimologia del termine «brand», che, ricorda l’autore, risale ad «ardere», «bruciare» e che richiama dunque il «tizzone ardente», ciò con cui appunto si marchia a fuoco, si appone uno stigma sulla pelle. Si potrebbe obiettare che il fuoco distrugge: ma pensiamo, di contro, al fuoco divino del roveto ardente biblico da cui Dio parlò a Mosé, un fuoco da cui si originò una legge quale quella dei Comandamenti. Vero creatore e legislatore sommo è dunque chi realizza l’atto performativo del «branding», termine con cui si indica in ambito di intelligenza strategica lo scegliere nomi e idee forti per definire i concetti guida. È un’attività in cui si realizza la trasformazione del corpo naturale in corpo pubblico, in cui si afferma la «violenta trasformazione culturale» del corpo. In questo senso, la marca è in realtà un segno da considerarsi anche nell’op – posizione tra umano e divino, poiché, in modo molto simile al peccato originale, essa introduce nel mondo la catalogazione e la differenziazione delle cose, tra il nudo e il rivestito, tra il maschile e il femminile, tra ciò che è marcato e ciò che non lo è. Come lascia intendere Marrone, è anche mefistofelica la potenza della marca oggi, quando essa si pone «come pura forma capace di assumere sostanze diverse, dalla politica al turismo, dallo spettacolo all’umani – tarismo, dall’educazione alla gastronomia ecc. – vettore forte di un senso qualsiasi purché ce ne sia uno». Un retroscena di sacralità fa dunque paradossalmente da sfondo a un elemento profano e secolarizzato quale il brand, un elemento in cui oggi troppo spesso sembra possibile cercare rassicurazioni in mancanza di certezze concrete: quante volte a torto il fatto che un prodotto sia «firmato» ci sembra sufficiente a garantirne la qualità o la bellezza. Quante volte un’etichetta nasconde, invece di rendere trasparenti e palesi, i processi e i luoghi reali in cui un bene è stato realizzato, come purtroppo oggi accade a quel «metabrand» famoso nel mondo che si chiama Made in Italy. Se davvero vale la pena «brandizzare » tutto, l’intelligenza strategica dovrebbe fornire la chiave per fare di questa pratica un’operazione culturale, in senso pieno, e non una volgare mercificazione.

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